Intervista a Josef Svoboda

Intervista a Josef Svoboda

COME NASCE UN ARTISTA
A Colloquio Con Josef Svoboda

La coerenza e il rigore professionale caratterizzano la sua opera fin dall’inizio. Può parlarcene?
Devo alla mia famiglia, in particolare a mio padre, il desiderio per il rigore professionale. Mio padre era un valido artigiano, un uomo affettuoso e al tempo stesso rigoroso, con un vivo interesse per quanto era destinato al pubblico. Mi diceva sempre: “Non puoi essere mediocre, tu devi essere ottimo. Devi apprendere e poi lavorare con amore e con rigore”. A Vienna ho imparato il mestiere del falegname, ed ero andato a Vienna, perché quella era la capitale anche della falegnameria e io volevo fare degli… ottimi mobili. Dopo sei anni sono tornato a casa, a Cáslav, e ho aperto la mia bottega. Avrei desiderato studiare pittura, ma le cose andarono diversamente: dopo l’esperienza come garzone, ho frequentato a Praga la scuola d’architettura e, ottenuto il diploma, sono diventato insegnante in quella stessa scuola. Proprio in quel periodo, durante la seconda guerra mondiale, io e alcuni amici abbiamo formato un piccolo gruppo teatrale. Fu il mio primo contatto con questa splendida arte, i miei primi passi come scenografo. E’ di quel periodo l’incontro, per me decisivo, con i registi Alfréd Radok e Václav Kašlík.
Il periodo della formazione ha avuto esperienze importanti anche nel dopoguerra, in particolare per quanto riguarda l’architettura.
Sì, dopo la guerra decisi di dedicarmi seriamente allo studio dell’architettura, che ritenevo la base indispensabile per uno scenografo. L’architetto deve capire e sentire lo spazio e deve saper costruire. I nostri migliori scenografi erano architetti. Ma, attenzione, l’accademia non basta. La scuola di scenografia infatti non è che una sovrastruttura: la scenografia non è una disciplina scientifica così come non lo è la drammaturgia. Si diventa scenografi e drammaturghi quando già si possiede una buona padronanza dei metodi empirici e delle nozioni artistiche, letterarie o musicali di base e si è in grado di applicarli secondo le necessità. A mio parere non si può diventare un bravo scenografo o un bravo drammaturgo solo con quattro anni di studi universitari. Servono sì come solido fondamento di cultura generale, ma vanno poi integrati da un percorso artistico individuale originale.
Prima ha citato Vàclav Kaslik, grande uomo di teatro praghese. Vuole dirci qualcosa di più su quell’incontro decisivo per la sua vicenda artistica?
Kašlík, era direttore del Teatro dell’Opera 5 Maggio, mi chiamò per mettere in scena un’opera lirica del compositore cecho Otakar Ostrêil . Cosa avvenne? Beh, semplicemente non seppi resistere. Mi trovai incantato e angosciato davanti al vuoto in apparenza senza fondo di un grande palcoscenico, con il problema di riempire uno spazio così enorme con un’adeguata scenografia. Ed è la stessa sensazione che provo ancora oggi, ogni volta che mi trovo di fronte ad uno spazio vuoto ed attendo con ansia l’ispirazione.
Poco dopo, proseguendo gli studi di architettura, diventai caposcenografo ed iniziarono tre anni miracolosi. Si combatteva con successo contro gli stereotipi dell’opera lirica. Da allora, quel teatro fu sinonimo di uno stile, di una nuova scenografia, di una linea rigorosa.
Viene poi la fase del teatro Nazionale di Praga.
Dopo quei tre anni miracolosi, avvenne la fusione con il Teatro Nazionale e divenni caposcenografo, ruolo che ho ricoperto per trent’anni. All’interno del teatro creammo un laboratorio di scenografia, che divenne celebre in tutto il mondo. Per noi era chiaro che non si potevano programmare le cose solo sulla base di un modello: il regista e lo scenografo dovevano (e devono) essere liberi di intervenire e modificare anche poco prima dello spettacolo. Infatti, chi può sapere a priori come si muoveranno gli attori? L’idea geniale e travolgente può arrivare solo nel momento in cui si vede tutto insieme sul palcoscenico. A mio parere il teatro vero è quello che riesce ad essere aperto fin all’ultimo istante a qualsiasi cambiamento. A differenza del cinema, in teatro questo è possibile e così si dovrebbe fare. Ripeto quello che diceva mio padre: “Si deve essere professionali”. Ecco: essere professionali qui significa adempiere alla creatività, alle regole del teatro, altrimenti l’arte sarebbe tradita.
Intanto la sua fama si diffondeva all’estero. Come ha lavorato fuori dal suo paese?
Posso soltanto dire che sono stato veramente fortunato, perché ho avuto occasione di lavorare con i migliori registi, direttori d’orchestra e coreografi. Queste collaborazioni sono sempre state una magnifica avventura e mi hanno dato una grande gioia.
Oltre al concetto di spazio scenico, per lei è fondamentale pure l’impiego della luce. Come associare questi due elementi?
Il palcoscenico è uno strumento perfetto, nel quale l’uso della luce è decisivo per la costruzione delle scenografie e per la riuscita dello spettacolo. Mi sono sempre domandato perché, per esempio, proiettare solo su una superficie compatta e non su fasci di linee mobili o su frammenti di superfici o aste. Perché la luce non può rapportarsi in modo astratto a questi elementi, anziché illuminarne solo la superficie? Ho studiato la possibilità di compenetrazione di due immagini luminose che si scontrano ad angolo retto, invadendosi a vicenda, sperimentando anche ulteriori possibilità di sovrapposizioni di luci colorate. Ho cercato, se così si può dire, di ‘ingabbiare’ la luce. Per tutta la vita ho cercato nuove soluzioni ai vecchi problemi del teatro e sono andato progressivamente scoprendo nuove possibilità. Ho in mente, ad esempio, un palcoscenico libero, che bisogna riempire con… il ‘vuoto’ della luce, uno spazio dove creare un ambiente, ad esempio, azzurro. Dico “creare” perché, in realtà si realizza qualcosa, anche con il ‘vuoto’ della luce. Come è possibile prendere una superficie e farne un quadro che può essere chiamato ‘Colore nero’ o ‘azzurro’, così avviene con lo spazio e la luce. Il colore è reale e anche lo spazio lo è, specialmente lo spazio drammatico. Da sempre cerco nuove vie sperimentali e sono stati pochi gli istanti in cui ho avuto l’impressione di averle trovate. Ma, ripeto, il palcoscenico è uno strumento perfetto come un pianoforte: si può suonare Chopin e dal cielo cadranno le stelle o Beethoven e la tristezza diventerà una forma concreta. Oppure si può suonare Mahler, Gershwin… sul palcoscenico tutto è possibile, come in uno strumento perfetto. A patto però che lo si suoni bene.

Per un maestro

svoboda-alla-mostra

di Franco Brambilla
Mi piace ricordare una passeggiata a Praga dove discutendo di teatro nacque l’idea di una mostra tematica, “virtuale” come la nominò subito il Maestro… I segreti dello spazio teatrale di Josef Svoboda testimonia un lungo rapporto di amicizia e di stima con il maestro cecoslovacco; è infatti l’ultima tappa di una serie di progetti che da quasi dieci anni ci accomunano. Risale al 1990-91 il primo incontro con Josef Svoboda, a Praga, dove ci recammo per sottoporre alla sua attenzione un progetto dal titolo I Gabinetti di ottica tra leggi fisiche e visioni dell’immaginario. Ne nacque una mostra, Lo spettacolo dell’illusione, che racchiudeva una sezione dedicata al Maestro e un lungo seminario, condotto a Modena, al Teatro Comunale, per allievi registi e scenografi, ma soprattutto si crearono allora stretti legami di intesa culturale e di amici¬zia, rafforzati poi nel corso degli anni da una profonda condivisione di comuni interessi arti¬stici, fino alla realizzazione della scenografia per lo spettacolo da noi prodotto nel 1995 Vite a scadenza da Elias Canetti, e nel 1997 in collaborazione con RAI Sat la produzione di un servizio speciale sulla vita e opera di Svoboda.
Ma ciò che mi preme in queste poche righe sottolineare è un aspetto particolare della per¬sonalità del Maestro. Mi riferisco alla sua generosità umana e artistica, alla sua attitudine alla sperimentazione e alla ricerca di soluzioni, quasi sempre illuminanti, doti queste che si tra¬ducono nella straordinaria capacità di trasmettere ai giovani non solo la propria esperien¬za, ma soprattutto il proprio entusiasmo nell’affrontare ogni volta un progetto creativo. Mi piace, ad esempio ricordare la linearità e la chiarezza dei suoi interventi in occasione di un seminario di studio svoltosi proprio a Genova e diretto agli allievi di un altro protagonista della scena, Leie Luzzati, in vista della progettazione della scenografia per Vite a scadenza: un’oc¬casione questa di confronto tra due “scuole di pensiero” assai diverse, ma anche una oppor¬tunità per i giovani partecipanti di cogliere nei due maestri la medesima passione per il tea¬tro, il medesimo stile di vita che rimanda al gusto per un intatto sapere artigianale. E anco¬ra non possiamo dimenticare l’accoglienza cordiale, al momento del primo incontro con Milena Honzikovà e Josef Svoboda, subito tradottasi in una curiosa e partecipe opera¬tività progettuale, più volte riconfermata negli anni attraverso le diverse iniziative che intan¬to andavamo mettendo in campo.
La mostra I segreti dello spazio teatrale ha il carattere di una vera e propria riflessione sull’attività di oltre mezzo secolo di uno degli scenografi più geniali della storia, e segue di qualche anno l’edizione del volume che porta lo stesso titolo pubblicato con UBU libri. Un evento culturale dunque, ma anche una testimonianza di stima, amicizia e di profonda ammirazione.

Dialogo per il teatro di Josef Svoboda. Con: F. Brambilla, F. Quadri, V. Ottolenghi

Josef Svoboda nello studio

V. Ottolenghi
Grazie,grazie,perché mi avete invitato qui con Franco Brambilla,direttore ,artistico della Corte Ospitale, un grazie perché sono qui con il critico Franco Quadri,non solo un critico, ma un intellettuale a tutto tondo, fondamentale il suo lavoro con Ubu libri indicazione di percorso sul teatro della contemporaneità e ancora un grazie per me,perché sono qui alla Corte con amici molto cari ai quali debbo affetto e riconoscenza anche perché mi hanno fatto incontrare personalmente J.Svoboda;la Corte Ospitale l’ha fatto venire in Italia più volte ,ha lavorato ad alcune scenografie con Franco Brambilla,ha fatto diversi laboratori, mostre,una è recente ,sta girando ancora per l’Italia.Ho incontrato I.Svoboda a Praga, per il suo compleanno,i suoi 80 anni,ero con Anna Pozzi,sindaco di Rubiera e con franco Quadri ,tre giornate che ricordo con vero piacere, ricordo i saluti degli a llievi di J.Svoboda alla Lanterna Magica,momento di grande gentilezza, tenerezza,affettuosità,di sconfinata stima,bellissimo ,una cosa molto semplice e grande allo stesso tempo,allo stesso tempo il saluto della città e della nazione; il teatro ha riallestito alcune vecchie scenografie come omaggio ad un grandissimo maestro.Di questo grandissimo maestro noi abbiamo la possibilità di seguire,leggere vedere immagini attraverso un libro che ancora è un collegamento tra queste due presenze ,il libro è “I segreti dello spazio teatrale”si legge con grande convolgimento,èun racconto,racconto di un maestro di grande genialità,ricercatore,artigiano artsta,architetto ,amante grandissimo della luce capace di non stancarsi mai di individuare materiali, immagini, visioni,scienziato e visionario,sicuramente il più grande scenografo del novecento.J.Svoboda ha lavorato molto con la Corte e c’era tra i suoi progetti,programmi importanti, quello di lasciare qui, e sarà fatto,un percorso di memoria e di conoscenzaattraverso una raccolta multimediale del materiale di Svoboda,sia delle scenografie svolte, sia dei materiali raccolti lungo il tempo.Voi vedete delle tracce importanti,diapositive,video,ricordi personali delle persone che sono qui e che poi diranno.Ora i mie compagni dialogheranno e ,affinché si possa mantenere la freschezza della memoria ho pensato di chiedere loro un ricordo, un ricordo di lavoro per Franco Brambilla, anche un ricordo di lavoro per Franco Quadri che è andato spesso a Praga anche per mettere a punto questo libro.Sono sguardi diversi:chi lavora direttamente con il teatro e uno sguardo invece di analisi,di considerazione più globale,ma credo poi affine sotto molti punti di vista.
F. Quadri
A Praga,nell’occasione che Valeria ha ricordato, ho scritto un pezzetto quando al teatro lirico hanno ripreso la Tosca, cosa difficile da fare in Italia,hanno infatti ripreso la Tosca fatta più di 50 anni prima,e siccome le scene sono diverse nei tre atti, prendendo un pezzetto di ciascun atto ,in modo da far vedere il cambiamento della scena,una cosa molto emozionante,per una volta lo scenografo era protagonista,lo scenografo e la musica e il regista passava in subordine, come spesso succedeva quando lavorava lui, in quell’occasione gli fu data una medaglia ,per i suoi 80 anni ed appunto in questa situazione io ho scritto un pezzetto che voleva riassumere l’immagine di Svoboda.
“Il novecento ha cambiato completamente il teatro grazie all’invenzione dell’elettricità e alla concorrenza del cinema e della TV, così come la fotografia trasformava la pittura. Già alla vigilia del secolo nasceva la regia rivoluzionando la lettura dei classici, con Chechov e Strindberg cambiava il modo di scrivere i testi. Le avanguardie teorizzavano anche un teatro senza testi, grandi visionari come Appia e Craig insegnavano un diverso uso dello spazio. Nella seconda metà del secolo, già a partire dagli anni 40 Josef Svoboda questa scenografia che è un’arte nell’arte la ha reinventata,attraverso il dinamismo degli elementi elevati quasi a personaggi ,infrangendo le leggi della gravità e grazie al tempo come dimensione coordinatrice, scoprendo l’uso di nuove materie,lavorando con la luce e con gli specchi in relazioni inedite capaci di condizionare la lettura dei testi. Ma ha anche utilizzato le proiezioni e il cinema cercando nella sua Lanterna Magica un teatro al di là del testo,dove il reale si confonde col virtuale.Questo scientifico inventore entrato nella leggenda, che è riuscito a far spezzare il laser per il suo Flauto magico, a usare la polvere come mezzo espressivo, a bloccare la corrente della metropolitana di New York per far morire la sua Carmen inondata di luce è sempre rimasto un artigiano che amava lavorare con le proprie mani e crede alla collettività dell’opera teatrale. Architetto del fantastico è ,o era un mago semplice che collezionava nel suo archivio immagini di vita e sostanze naturali di ogni genere basi per l’umanità di un teatro futuribile e dentro quel laboratorio, in un teatrino che è luogo dell’ideazione e della memoria esperimenta e monta spettacolini miniatura, il genio gioca coi sogni come un bambino di 80 anni, artista del materiale e dell’immateriale
F. Brambilla
Posso offrire delle suggestioni,dei ricordi…Con Svoboda era nato un rapporto di amicizia,di semplicità,io vorrei ricordare come lo abbiamo conosciuto. Mandammo un progetto,erano gli anni in cui lavoravamo ai “gabinetti di ottica”,Milena,la sua drammaturga lesse e tradusse il mio progetto e una settimana dopo ci trovavamo a Praga a parlare con il maestro; tutto fu molto semplice,diretto,emozionante perché c’era la presenza della genialità unita alla semplicità. Se dovessi ricordare la caratteristica che mi ha sempre colpito:un grande uomo con una grande capacità,una grande lucidità,con un senso quasi infantile del divertimento.Mi raccontava come è nata l’idea della spirale di Streler,del Faust di Streler,era qusta la cosa sorprendente di Svoboda ,il suo studio per certi versi sembrava estremamente meticoloso,rigoroso, ma con il senso di divertimento di un ragazzo. C’è una fotografia davanti a me,a noi di Svoboda nel suo studio:aveva ricostruito i laboratori di fotografia,di falegnameria di luminotecnica, di tutto ciò che poteva servire per il teatro. Pensava,come diceva Franco Quadri, che il teatro fosse una costruzione collettiva, tutte le persone avevano un ruolo fondamentale, dall’ultimo macchinista fino al regista.
F. Quadri
Aveva fatto molti mestieri,ottenne le lauree ad honorem negli Stati Uniti,m,a aveva cominciato lavorando da falegname,poi dopo era entrato in teatro proprio facendo i lavori manuali e di lì è diventato realmente uno scienziato e poi un grande collezionatore di oggetti di vita di ogni genere.Al di là di quelli che sono i suoi grandissimi meriti di ri fondatore della scenografia soprattutto per il lavoro con la luce,un lavoro che però è andato avanti continuamente,al di là di questo c’era questa sua passione, io mi incantavo. L’ho conosciuto grazie a voi .Lui è stato a Milano ed ha avuto questa difficile collaborazione con Streler ,ha lavorato con diversi grandi registi, ma non è riuscito poi, a parte la collaborazione con grandi registi cecoslovacchi e tedeschi a fare coppia con dei registi straordinari,perché le sue concezioni della scenografia partivano da una lettura del testo tale,che già prefissava i movimenti possibili in cui una delle basi era il fatto di questa scenografia sempre mobile come un personaggio e il fatto di prefissare prima le luci , poi dopo lavorare su materiali. Questo suo studio incredibile! C’erano raccolte di tutto, raccoglieva oggetti,raccoglieva fiori,raccoglieva flora e raccoglieva sassi, non solo, raccoglieva facce, c’erano quantità di immagini, tutto ciò che vedeva di curioso lo fissava ,ce l’aveva lì,e quando doveva preparare una scenografia, è da lì che partiva,da questo straordinario laboratorio. Poi aveva due teatrini, uno era un vecchio teatrino dei burattini ottocentesco ,messo in un angolo un pochino come un cimelio, l’altro era un teatro dove lui faceva la sua scena, cioè faceva la scena in tutti i particolari,compresa l’illuminazione: mai parlargli di un direttore di luci, perché era lui il direttore di luci, la luce era uno dei suoi modi per esprimersi. In questo teatrino poteva ricostruire tutti i suoi spettacoli. Giocava come un bambino; ricordi la gioia con cui ci faceva vedere come aveva fatto una scena in un posto,come l’aveva fatta in un altro, perché regolava queste luci alla stessa distanza che avrebbero avuto sul palcoscenico, era un creatore totale. In effetti sappiamo che ha inventato dei sistemi di illuminazione : ci sono i famosi svoboda che sono i riflettori controluce ….accennavo a questa cosa del laser,quando lui doveva fare Il Flauto magico a Monaco, il laser era un’invenzione arrivata da poco , lui disse-ho bisogno di spezzarlo-è andato alla Philips., che aveva il centro lì vicino, ha manifestato i suoi desideri,loro nel tempo necessario a lui richiesto, gli hanno messo a disposizione in studio,come fatto di ricerca sperimentale e gli hanno dato quello che lui voleva.Era un personaggio fantastico,anche perché credeva talmente nelle cose,era questa semplicità così disarmante che riusciva ad arrivarci.
F. Brambilla
Rispetto a questo mi ha sempre colpito questo nel suo studio,luogo da cui tutto partiva:c’erano decine di corpi illuminanti aperti,fari e lui non progettava l’illuminazione, ma progettava il corpo illuminante,cioè inventava il faro;non partiva dall’idea che ci sono certi fari che danno questo tipo di risultati ,ma continuava a ripetere-io entro nella materia per comprendere come va una scenografia. A vevo visto uno spettacolo di cui non ricordo il nome, forse la favola del Flauto magico alla Lanterna Magica:c’era il classico tappeto di danza molto spesso,nero,sembrava che da sotto ci fossero delle proiezioni, però il danzatore non faceva nessuna ombra, sembrava una magia, un a cosa impossibile, poi andammo a casa sua a cena,come spesso accadeva ed io gli ho chiesto come e ra possibile, la prima risposta fu –i miei segreti non li passo a nessuno, poi ha iniziato a raccontare: aveva fatto fare il tappeto con delle lamelle di carbonio ed intervenendo nella materia riusciva attraverso l’incidenza della luce a creare dei disegni. Questo era tipico del suo modo di affrontare la scena,non semplicemente la decorazione,ma entrare nella materia,comprenderla ,generare un corpo illuminante,oppure un tappeto,un fondale, non lavorava cioè con degli standard,ma creava.Era il suo tipico atteggiamento con cui ha condotto molte operazioni .Parlava di un altro suo concetto molto importante, dell’architettura dello spazio scenico: negava il discorso della scenografia, infatti una volta con Luzzatti a Genova ci fu quasi un tafferuglio, Luzzati ci rimase male e parlava proprio dell’architettura dello spazio scenico,significa interpretare lo spazio scenico ,entrare in profondità nella decorazione, questo era il filo conduttore della sua ricerca, il suo rapporto con la scena passava attraverso l’andare oltre i mezzi a disposizione per entrare nell’anima,nel corpo.
V. Ottolenghi
Aveva questa forte intuizione creativa e interpretativa dello spettacolo, per cui immagino che da regista non abbia avuto vita facile,forse tendeva a tenere le cose per sé….
F. Quadri
No,no era generosissimo,erano i registi che non lo volevano,perché sapevano bene..poteva lavorare con Del Kamp,poteva lavorare con determinati registi che avevano un loro interesse, si limitavano alla recitazione e gli lasciavano questa genialità immaginativa,certo che se lui fa Amleto e decide che lo spettro non esiste, ma è una immagine che si produce attraverso un incontro di luci, evidentemente questa è una interpretazione che costringe il regista, perché è un fatto molto importante la presenza o la non presenza dello spettro e lui voleva continuamente andare avanti nello scoprire qualche cosa che desse al teatro maggiori possibilità fino ad arrivare a queste forme di magia, queste ultime erano con Krejcia nel Faust, anche lì c’era la creazione di un personaggio che era virtuale, Mefisto che usciva da una frazione di uno specchio, una delle ultime cose che aveva fatto, andava verso l’ologramma,poi non scartava niente di tutto quello che di nuovo succedeva. Una persona di 80 anni ,sempre così protesa alla ricerca ,è una cosa comune ai grandi del teatro che non smettono di reinventare, di andare più in là, come Brook e un altro. Credo che ci manchi molto ,perché poteva fare ancora molte cose, non è che a 80 anni continuasse a proporre le stesse cose, inventava di continuo
V. Ottolenghi
Ho il ricordo delle sue mani che mi aveva molto commosso, lui un lavoratore,un manipolatore, aveva queste mani un po’ deformate da una forma di artrosi, percui sentivi questo suo parlare pieno di voglia,voglia anche fisica di fare, è un ricordo di grande tenerezza
F. Brambilla
Ho un ricordo molto netto, molto preciso, a Genova, quando abbiamo fatto la mostra a Sant’Agostino,quando Svoboda è arrivato ,si è seduto sotto questa torre gli ultimi anni della sua vita al balconetecnologica ,schermi, diapositive ed era estasiato, guardava queste immagini..la sera in albergo ci siamo fermati a chiacchierare e ho chiesto che cosa pensava a rivedere tutta la sua vita, perché era visibilmente estasiato..lui ha raccontato che ha rivissuto tutti i problemi che ha incontrato, legati alle varie realizzazioni, poi mi è venuto in mente Hoffman, che ha passato gli ultimi anni della sua vita al balcone a guardare la gente che passava senza rendersi conto del mondo, non riusciva a capire se le persone vise erano persone reali o erano i personaggi delle sue opere su questo ha iniziato ricostruire gli aneddoti ,le storie, è stato molto commovente.Non aveva voglia di fare la mostra,perché diceva che uno scenografo non fa mostre di scenografie, ma fa le scenografie,le mostre sono un’ombra dell’arte, ho cercato di insistere,di trovare la chiave giusta ,poi l’idea di fare una mostra che fosse in realtà uno spettacolo ,uno spettacolo fatto di tutti i suoi spettacoli, su questo ha iniziato a riflettere, mettere in scena i vari temi,la luce..lo ha aiutato a prendere la decisione positiva, la mostra c’è ed è anche importante come documentazione
V. Ottolenghi
Voglio fare una domanda , c’è ancora la disponibilità di un regista che ha voglia di mettersi a confronto con un grande,quasi in concorrenza? O abbiamo a che fare con dei registi che vogliono pensare allo spettacolo in toto e lo scenografo è qualcuno che ascolta le idee che deve realizzare secondo particolari indicazioni? L’idea della ricerca così completa,ricca,vasta,questo andare a cercare tra le cose piccole, le fotografie,le facce, i sassi, questo gusto dei materiali al di là della tecnologia, c’è ancora? E’ possibile vedere dove la teatralità della visione ancora si può cercare?
F. Quadri
Non penso che si stia andando verso uno svuotamento del fare teatro, ma verso un maggiore arricchimento del fare teatro. Non si può rispondere in generale, perché ci sono diversissimi scenografi, diversissimi registi, quelli che stimano il lavoro della scenografia. Il lavoro della scenografia si è un pochino ridotto nelle ultime tendenze, anche perché si tende verso un teatro più essenziale per motivi pure economici, ormai abbiamo il teatro dei monologhi con un attore solo per non pagarne due,figuriamoci pagare una scena o pagare tante scene,ci sono comunque diversissime tendenze,per esempio Brooke ha puntato sempre sul togliere,sul levare sul ridurre. Nell’ultimo A mleto c’è un tappeto, due cuscini e stop.Cosa non c’è nel Mahabaratha di polveri, di odori, scenografie ridotte e di una raffinatezza estrema. Diminuisce la raccolta di materiali presi dalla vita e aumenta lo sfruttamento del computer,del mezzo meccanico,ci sono anche grandi registi che si affidano a scenografi,ognuno segue le sue scuole,le sue tenednze,registi come Zadeck o come Dodin hanno sempre due o tre scenografi con cui condividono visioni e sano bene se rivolgersi all’uno o all’altro. Certi scenografi che ho conosciuto molto da vicino, Luzzati è un caso a parte,non può lavorare con tutti perché per esempio con Trionfo inventavano insieme, andavano a spasso ,vedevano un filo della luce, dicevano o che bello, facciamo una scena tutta di fili della luce, così l a fantasia dell’uno, il modo di quell’altro di far diventare tutto teatrale funzionava, era una coppia perfetta,Luzzati si trova bene con tutti, ma ci sono degli scenografi come Damiani,per esempio che è stato uno scenografo di un grande periodo perché ha fatto delle invenzioni, ha inventato la scena che non si chiude una scena aperta, si svolge soltanto in orizzontale, però c’è l’infinito di qui e di là,che è stato sfruttato ampiamente da Streler,soprattutto nel Galileo,poi ha fatto delle cose memorabili con Ronconi ; anche Jobb che è uno scenografo molto inventivo che vorrebbe fare un po’ lo Svoboda ma che lo fa non con le luci,ma con i diversi piani scenici, che però trova difficile collaborazione perché vuole imporre il suo discorso, bisogna avere la coscienza che aveva Svoboda che è un’arte collettiva
V. Ottolenghi
Torniamo ai ricordi di Svoboda? Ai Progetti? In che modo si può pensare che l’insegnamento non solo resti come ricerca, si farà,speriamo, questa raccolta di conoscenza per cui potranno venire persone a studiare a confrontare a capire, perché a volte è difficile anche capire, ci sono immagini che non bastano a spiegare, cioè non c’è l’intuizione immediata architettonica,c’è un sapere, un sapere che si possa rinnovare, è un problema della cultura italiana in particolare il passaggio di maestria
F. Brambilla
A questo proposito voglio ricordare Milena, la drammaturga di Svoboda, ma anche qualche cosa di più, c’era un sodalizio molto importante tra di loro, è morta qualche mese prima del maestro, con lei avevamo iniziato a costruire un progetto internazionale per un archivio,un po’ per salvare il materiale,salvare è una parola grossa, ovvero per dare una collocazione anche a livello europeo, l’idea di costruire un archivio multimediale per cui avere dei materiali a Praga La Lanterna magica o proprio a casa di Svoboda, in ogni modo la possibilità di consultare questi materiali in varie parti d’Europa con un lavoro complessivo. Si vede anche nel video di RAI SAT il suo studio come lui raccoglieva tutto,testi,conti disegni ,bozzetti, fotografie,per ogni spettacolo produceva una sorte di documentazione molto precisa e questo materiale sostanzialmente è la storia del teatro; si incrociano in questa collezione vite periodi esperienze artistiche di ogni sorta, è infatti transitato attraverso un periodo molto importante della storia del teatro europeo. La nostra ideea era appunto di contribuire a questo progetto complesso, molto complesso io spero di riuscire a costruire la via per potere costruire questo progetto in rete con altri centri europei e con luoghi fisici dove poter consultare,magari un parte di materiali, attivare rapporti con le università, con i centri di ricerca, con delle realtà interessate ad approfondire lo studio della scenografia, perché a questo punto non si parla solo di Svoboda,ma il discorso è più ampio. L’idea era anche quella di istituire delle borse di studio, mandare dei ragazzi a Praga alla Lanterna magica a lavorare . Per noi è un impegno più che altro nei confronti di due amici, Iosef e Milena con cui abbiamo fatto una parte molto importante di strada. Io ho anche realizzato un lavoro con la scenografia di Svoboda,io sono una testimonianza vivente della difficoltà di lavorare con un maestro; i pianti suoi….non ci si poteva scherzare. Nelle “Vite a scadenza di Canetti”,esperienza peraltro straordinaria, a un certo punto abbiamo avuto una sorta di scontro,perché per lui il testo di Cagnetti evoca uno Stato assolutamente potentissimo che controlla le vite nei minimi dettagli: venendo da un’esperienza stalinista o comunque da un mondo dove il controllo si esercitava con il mitra, è chiaro che l’idea era quella. La mia esperienza è un po’ diversa,per me non è questa, la mia esperienza personale è un mondo che viene controllato attraverso l’informazione, la manipolazione dei mezzi di informazione… per cui, sull’interpretazione, abbiamo avuto un momento di difficoltà poi ovviamente siamo arrivati ad un punto di contatto; il problema poi è quello, o hai la possibilità di andare su strade parallele….
In ogni caso c’è la nostra precisa volontà di andare avanti su questo progetto,di riuscire a trovare dei partner italiani per riuscire a …perché noi siamo piccoli,non abbiamo grandi possibilità,volendo si potrebbe fare una cosa molto interessante.
F. Quadri
Volendo,purtroppo la situazione non vuole tanto:in questo momento tutto ciò che è sperimentale,di ricerca, interessa molto meno che non tutto quello che è di consumo, lo sappiamo e sappiamo verso dove si va’.Ultimamente Svoboda non si poteva spostare molto facilmente, allora è stato tradito: uno dei suoi ultimi lavori qui all’estate teatrale veronese,all’Arena per La forza del destino il progetto era molto interessante ma è stato assolutamente sminuito…
V. Ottolenghi
Questa sala è la sala Svoboda,viene inaugurata oggi, è una sala di ricordi dove potrete fermarvi più a lungo per vedere immagini..diapositive.
Mi sto domandando se la direzione oggi di questo tipo di ricerca non sia più sulle arti figurative, sulle installazioni, su chi pensa di autoprodurre in fondo immagini visioni scientificità, mettere in gioco tutto creazioni,percorsi, più che mettersi in gioco con un regista con cui creare un dialogo comunque complesso, perché quando lui immagina un certo tipo di morte di Carmen è già un’interpretazione registica….quindi mi domando se ci sia una eredità Svoboda sulle arti figurative nel senso più ampio del termine,installazioni contatti..E’ una domanda
F. Brambilla
Faccio molta fatica a rispondere a questa domanda, perché la realtà che riesco ad osservare è talmente tanto contraddittoria,frammentaria,piena di direzioni che poi vengono abbozzate che la relazione con l’immagine visiva no è fondamentale molto spesso nascono le idee di molti lavori da immagini. Anche ‘Aqua micans’,inaugurato ieri è una evocazione visiva che diventa azione, teatro,testo, quindi da qui non voglio assolutamente teorizzare,ci sono le persone che lo devono fare, il teatro che maggiormente mi interessa, mi prende, è il teatro che ha la capacità di esplorare nuovi linguaggi, nasce dalle arti visive per trasformarsi in teatro. Ricordo Cantor ..ho avuto la fortuna di conoscerlo, ho avuto modo di vedere come lavorava:un artista visivo che trasforma una scena con altri linguaggi. Credo che questa sia l’attualità del teatro,il teatro vivo lo vedo in questo senso, chiaro poi che ci sono molte indicazioni,sfumature, passaggi….anche il teatro di parola, quando la parola si fa suono,si fa spazio, quando la parola diventa materia allora non è solamente il detto. In sostanza credo che il teatro che mi interessa maggiormente viva sempre nel non detto in quello che il pubblico in qualche modo può recepire e ritornare,ritrasformare,ributtare in avanti
F. Quadri
Andare avanti, prima ho fatto il nome di Castellucci,ma Castellucci è qualcuno che lavora soprattutto sull’immagine e sul suono, sullo stravolgimento del suono e l’immagine la costruisce nel suo modo di fare teatro che lo porterà verso il cinema inevitabilmente. Per quanto riguarda svoboda lascia moltissimo, lascia le invenzioni, un altro modo di vedere la scenografia, una capacità di estendere all’infinito l’immagine, soprattutto anche lui aveva seguito questa strada, perché dall’esposizione di Bruxelles e di Montreal lo hanno fatto conoscere per quella che è diventata la Lanterna magica dove lui costruiva degli spettacoli basati soprattutto sull’immagine e sui giochi di immagine e in effetti riguardavo quello che aveva detto nell’ultima intervista rilasciata a Venezia, lì rispondeva alle domande con un enorme interesse per la creazione di forme geometriche attraverso la proiezione dell’uso del video, come dire non lo si usa abbastanza, si può sfruttare in tanti modi,era uno che continuava ad andare avanti, è questa l’eredità che ci lascia,in effetti oggi si lavora sempre più sul computer , lo diceva anche prima e questo apre strade grossissime per il teatro, al di là di quelle che sono le installazioni che è un’altra cosa,perché il discorso visivo comunque a teatro è una forza, un’anima
V. Ottolenghi
Ringrazierei tantissimo Franco Quadri, Franco Brambilla, se non ci sono altre domande…

Josef Svoboda: scienziato artigiano. Franco Quadri

Josef Svoboda nel suo studio

Fuori città, su una delle colline attorno a Praga, proprio accanto agli studi cinematografici di Barrandov, si nasconde ammantandosi nel verde la casetta di Svoboda: in realtà una villa, come si può constatare, una volta ammessi all’interno, dal vero fronte, cioè dietro, dove s’affaccia a un giardino che fa da osservatorio sulla piana e si butta a capofitto verso quella scenografia incredibile, infittendosi in un bosco scosceso. La casa esprime e ci rivela infatti, e non per la semplicità funzionale del suo décor, la natura di un artista che ha la sua qualità caratteristica nel coniugare l’assoluto col quotidiano e persegue la massima scientificità partendo da una pratica artigianale. L’origine di un’opera sterminata ha le sue radici in un’osservazione concretamente radicata nella realtà, che fornisce l’immaginario e le materie prime per realizzarlo, anche se tale concretezza verrà rigenerata alla luce dei testi di cui sono intuite nel profondo le istanze da suggerire sensorialmente. Bisogna superare il soggiorno, l’attrattiva del panorama, le tentazioni olfattive promesse dalla cucina, per raggiungere le scale che già preannunciano una museale distesa o forse un kafkiano proliferare di schedari. E se, a questo punto, si preferirà salire, rimarremo prigionieri degli archivi di un collezionista del mondo. Un entomologo che trascorre le sue giornate a fotografare fiori? O un inseguitore di farfalle in volo? Un ritrattista che ruba ricordi di volti o fissa imprevedibili atteggiamenti? Nelle migliaia di diapositive o di negativi catalogati per soggetti negl’infiniti scomparti c’è l’opera di un fotografo inesauribile di cose, animali, persone, momenti di vita, feste, cerimonie,. gare sportive, paesaggi, architetture, curiosità d’ogni tipo pronte da un momento all’altro a divenire materiali d’ispirazione o d’uso, da proiettare o riprodurre in scena. Ma se si va oltre quell’inventario d’esperienze visualizzate, settore per settore ci s’imbatterà nei reperti naturali o elaborati, le pietre, i metalli, i campionari di tessuti, i vari tipi di plastica, e poi gli strumenti, gli arnesi, gli attrezzi, i piedistalli di legno… Per non dire dei barattoli di vernice, al servizio dell’inventore di colori che ben conosce di quante tinte si compone il bianco e che la polvere sulla scena può essere creata con la luce. “Il teatro è una professione magnifica che combina le professioni”, dice Svoboda, ricordando di essere stato anche falegname, prima che fotografo, cineasta, naturalista, chimico, sarto, tintore e via elencando. Ovviamente è architetto, (“americano”), musicista, per quel minimo che gli dia confidenza con gli spartiti e “pittore senza farsene uno scopo”. E la scienza? Ora è inevitabile misurarsi con l’elettronica, ma da sempre naturalmente la matematica è la base tassativa di tutti gli allestimenti di Svoboda, puntualmente maturati provando e riprovando, dove è ogni volta indispensabile calcolare l’incidenza della luce o la pendenza degli specchi, il peso dei materiali o la velocità dei tempi. Se il teatro ha le sue ferree leggi, la sperimentazione non può arrestarsi davanti a nulla. Arrivati i primi laser lo scenografo riuscì a farli decomporre, perché per Il flauto magico di Monaco aveva bisogno della visualizzazione degli elementi, acqua, aria, fuoco: sapendo che un raggio laser si compone di altri raggi, si presentò allora al Centro Sperimentale della Siemens a Erlangen, chiedendo di operarne lo smontaggio, dopo che s’era già esercitato in proprio in qualche test; e in tre settimane, la società gli preparò a proprie spese la macchina che rifrangeva la luce, per un costo di quattrocentomila marchi fiscalmente detraibili. Ma è sottoterra, tra alcune delle sezioni di materiali già citate,. che il mago esercita le sue arti magiche, in un laboratorio faustiano, dove, tra l’altro, lo colsi una volta alle prese con l’opera di Goethe per la messinscena praghese in due serate del ritrovato Krejca. E non poteva esimersi dal ricordare che lì, dopo tre settimane di stallo a Milano, ai tempi del Faust del Teatro Studio, era nata, tra altre alternative da proporre, l’idea di quella spirale che avrebbe soddisfatto Strehler e salvato i suoi principi (“Ogni spettacolo per me esige il ritrovamento di una cosa che dica tutto”): ci vollero dunque trecentocinquanta metri di seta di tre metri di larghezza, montati in una figura discendente leggera ed equilibrata, armonica e generatrice di ritmo, che non pendesse né facesse pieghe, non fosse ricucita ma incollata, tenuta insieme con precisione, perché “dentro conteneva un segreto matematico”. E’ qui che nasce ogni progetto, sul palcoscenico rimodellabile a volontà del teatrino, tra una ragnatela di fili tesi, sotto il tiro di un impressionante sistema di fari, con un banco ottico che consente di riprodurre le distanze focali tra l’azione e i fari strutturati in modo da poter sostituire le lenti, e su queste basi commissionare la costruzione su misura dei riflettori necessari per l’allestimento in preparazione. Qui non solo vengono provate le scene, ma sondati gli effetti e miniaturizzata qualsiasi situazione teatrale. Lo scienziato e l’artigiano s’incontrano e l’empirismo delle soluzioni di partenza viene rigorosamente verificato al vaglio matematico. Se il maestro, compagno di lavoro squisito, esalta la collettività del suo mestiere, tanto da spendere calorosi attestati a favore dei tecnici, in questo laboratorio è un creatore assoluto e solitario, indipendentemente da quello che sarà poi l’intervento del regista. Nel gabinetto ottico prima che sul posto, vengono anche elaborate, saggiate e definite le luci, che delle sue scenografie fanno parte integrante, anzi costituiscono un elemento base, tanto che il maestro non accetta che nessuno si occupi per lui dell’illuminazione di una sua opera. Lo spettacolo viene premontato con precisione rigorosa e millimetricamente calcolata in tutti i cambi e i movimenti scenici, indicando anche per una questione di rapporti spaziali le figurine dei personaggi accanto alla scenografia, che a sua volta acquista un peso di personaggio e sarà comunque condizionante rispetto all’azione effettiva. Si capisce di conseguenza l’influsso che l’intervento di Svoboda ha sulla messinscena e le limitazioni che può porre all’intervento registico, rivendicando un peso da autentico coautore, anche se ciò non è stato d’ostacolo alla sua collaborazione con un ventaglio di grandi personalità direttoriali con le quali i progetti sono stati discussi, confrontati, corretti, pianificati. Lo stesso scenografo, così legato al premontaggio laboratoriale, è il primo a rendersi conto dei diritti della concretezza e a conoscere, aldilà delle necessità recitative, le leggi dello spazio con i relativi margini d’imponderabilità: sa bene come un cambio d’ambiente a causa di una tournée può giustificare ritocchi radicali, ma anche che il suo allestimento ideale, dettagliatamente concepito per un luogo determinato, potrà subire dei ribaltamenti dell’ultima ora; anzi lo sentiremo pure riconoscere, in questa facoltà scomoda ma appassionante di rifare tutto all’ultimo e di risolvere le situazioni d’emergenza improvvisando, un elemento di superiorità inventiva del teatro sul cinema.
Il teatrino di casa Svoboda non è però destinato soltanto alla progettazione. In qualsiasi momento il maestro potrà smettere il costume di mago per ricreare e rivedere all’infinito i suoi spettacoli, passandoli in questa sorta di suo computer manuale. Basta sfilarne gli elementi dalle rispettive scatole: gli schedari della cantina tutt’ intorno contengono infatti i bozzetti dell’intera sua opera, corredati dai dati in grado di rianimarli. E’ quindi affar di poco sfidare i decenni e le distanze tra i continenti per mostrare all’ospite magari l’entrata in scena dei Sei personaggi di Lovanio o la scomposizione e i successivi spostamenti dei giganteschi visi del Poseidone creato per l’Idomeneo di Ottawa; o risuscitare qualcuno dei molti trucchi ideati operando sulla rifrazione della luce, per esempio il famoso riflesso che riuscì a materializzare lo Spettro nell’Amleto di Pleskot nel 1959. Il teatrino diventa allora strumento della memoria e giocattolo. Ma al suo fianco, come se entrassimo ora in un sacrario, ne scopriamo un altro che non serve alla creazione o alla ricreazione; poco più in là difatti ecco, spuntato da un museo o da una mostra, il teatrino fisso che ripropone la ricostruzione del fantasma appena citato, come avveniva prima: realizzata grazie a una semplice diffrazione dell’immagine, secondo un meccanismo ottocentesco, ponendo l’attore che lo rappresenta sotto al palco. Anche il nuovo abbisogna del viatico della Storia. E nella Storia il più grande scenografo del Novecento c’è entrato da tempo, reinventando un’arte che è prima di tutto un lavoro.
La vita
Josef Svoboda è nato il 10 maggio 1920 a Caslav, una piccola città della Boemia, nell’attuale Repubblica Céca. Fin dai tempi della sua formazione, il legame fra apprendimento teorico e esperienza sul campo, creatività e manualità è fortissimo e sarà determinante in tutta la sua vicenda artistica di scenografo e regista. Il primo incontro di grande rilievo con il teatro è nel ’46, quando diviene direttore di produzione al Teatro del 5 Maggio di Praga.
Al Teatro Nazionale, è responsabile di produzione fino al ’50 e, nei venti anni successivi, ricopre l’incarico di direttore artistico. Dal ’70 è scenografo principale dello stesso Teatro; l’anno prima aveva ottenuto la docenza all’Accademia di architettura e arti applicate. Nel ’73, insieme con Afred Radok, fonda la Laterna Magika, di cui è rimasto direttore artistico fino al maggio dello scorso anno.
Le opere
La teatrografia di Josef Svoboda conta, dal 1943 a oggi, settecento titoli. Gli spettacoli teatrali hanno affrontato molteplici aspetti della drammaturgia di ogni tempo: dai tragici greci a Shakespeare, da Rostand a Cechov e gli altri autori russi fra Otto e Novecento, e ancora Brecht, Lorca, Durenmatt… Vastissimo – per varietà di autori, tipologie ed epoche – anche il ventaglio di opere liriche e balletti con musiche di Mozart, Beethoven, Verdi, Bellini, Wagner, Puccini, Smetana, Dvorak, Berg, Nono… Gli spettacoli sono stati realizzati e ospitati nei principali teatri del mondo, fra i quali, in Italia, La Scala e il Piccolo Teatro di Milano. Sempre in Italia, nel 1991 nasce la collaborazione artistica – spettacoli, mostre seminari – con La Corte Ospitale.
La filmografia annovera una decina di opere. Fra le più recenti: Le tre sorelle con la regia di Laurence Olivier (1970), Bio Engineering per la regia di Ove Nyhola (1983) e Amadeus, con regia di Milos Forman (1984). Il contributo del maestro è stato significativo anche in una ventina fra produzioni televisive e scenografie per spettacoli audiovisivi.
Fra le varie pubblicazioni dedicate a Josef Svoboda e alla sua opera, ricordiamo l’autobiografia I segreti dello spazio teatrale, a cura di Elena De Angeli e Franco Quadri, edito nel 1997 da Ubulibri in collaborazione con La Corte Ospitale. Il volume contiene, oltre a testi coinvolgenti e illuminanti sull’opera e la personalità di Svoboda, anche un’ampia e preziosa documentazione fotografica, ed una dettagliata schedatura della produzione del maestro. Da questo volume sono state tratte le dichiarazioni di Svoboda, riportate nella presente guida.
Da un seminario tenuto da Svoboda a Modena, sempre nel ’97, La Corte Ospitale ha tratto e pubblicato un testo – ricco di aneddoti chiarificatori e brillante, come è lo stile del maestro – nel volume Un anno di progetto di un centro interdisciplinare.

Le luci di Josef Svoboda

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“La luce è per me un elemento fondamentale della creazione dello spazio teatrale. Per questo non sono d’accordo di separare la professione dello scenografo da quella del disegnatore luci”.

E’ la luce che consente a Josef Svoboda di interpretare lo spazio scenico trasformandolo in spazio drammatico e proprio l’attenzione che da sempre egli ha dedicato alla progettazione degli apparati tecnici, gli ha permesso di sviluppare con grande precisione il suo linguaggio artistico: “solo la profonda conoscenza dei meccanismi della luce e la capacità di dominarla in ogni sua componente” egli sostiene “può consentire ad un artista di esprimere appieno la propria creatività”.
Molte sono le invenzioni che portano la sua firma, geniali quasi sempre le applicazioni del segreto della luce nei sistemi di proiezione e di multivisione su schermi dei materiali più diversi, di volta in volta sperimentati per ottenere un preciso effetto drammatico, suoi gli innumerevoli trucchi ideati operando sulla rifrazione della luce, come per esempio il famoso riflesso che riuscì a materializzare lo Spettro di Amleto nell’edizione del 1959, suoi gli apparati, frutto di una paziente sperimentazione, che si basano sull’utilizzo dello specchio, sia di vetro che in folio con risultati spettacolari e a dir poco sorprendenti, tecniche tutte che sono entrate a far parte della storia del teatro contemporaneo.
Ne diamo qui alcuni esempi, a partire dalle cosiddette Luci Svoboda, proiettori teatrali che proprio dallo scenografo boemo prendono il loro nome. Si tratta di un sipario di luce, tanto potente da originare una vera e propria barriera luminosa che crea una sorta di sfumatura sul fondo della scena mentre in primo piano, oggetti e personaggi, illuminati con estrema nitidezza si staccano dalla massa luminosa e acquistano una grande definizione dei contorni.
Per l’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958, l’allestimento scenografico del padiglione riservato alla cultura cèca e slovacca fu affidata a Svoboda, nella triplice qualità di arredatore della sala, di autore dello schermo multiplo, Polyecran, e di fondatore, assieme al regista Alfred Radok, della Laterna Magika. Su una serie di schermi di forma trapezoidale o quadrata situati in uno spazio completamente nero, si susseguivano le immagini, fisse o mobili, rimandata da sette proiettori cinematografici e otto per le diapositive, mentre l’intera sala risuonava della musica diffusa dai riproduttori stereofonici. La costruzione e la produzione dello schermo multiplo fu affidata all’Istituto sperimentale della tecnica per la produzione del suono e della luce: un circuito dirigeva tutte le funzioni dello spettacolo, inclusa la sincronia tra suono, luce, immagine, un vero e proprio miracolo della tecnica per l’epoca.
Dato il successo dell’Expo di Bruxelles e i crescenti consensi raccolti dalle rappresentazioni della Laterna Magika, Josef Svoboda fu incaricato di progettare l’allestimento di un’intera mostra all’esposizione Universale di Montreal. Ne nacque un complesso sistema audiovisivo, la multivisione, composto da quattro sistemi, frutto dell’esperienza di Bruxelles.
Il primo, Sinfonie, consisteva nella proiezione su cubi, prismi e superfici piatte di figure create da un fascio di luce rotante. Tutti gli oggetti si muovevano in verticale ed in orizzontale ed il loro movimento veniva moltiplicato dagli specchi disposti secondo una certa angolazione. Il secondo, l’Origine del mondo, era un mosaico composto da 112 quadrati, ognuno dei quali era occupato da due proiettori per diapositive, capace di 160 passaggi. Tutti i quadrati potevano spostarsi in avanti o all’indietro in modo da creare immagini intere e nello stesso tempo da poter disintegrare la superficie di proiezione, ricomponendola poi in modo diverso. Il terzo sistema, L’industria tessile, era costituito da tre rettangoli di corde che si muovevano e sovrapponevano rendendo così la superficie di proiezione più o meno rarefatta. Il quarto, infine, La pentola a pressione, poggiava su 18 superfici statiche circolari che creavano un apposito spazio di proiezione. I quattro meccanismi, anticipando il principio del computer, creavano un complesso che lo spettatore poteva seguire nel suo insieme.
Noricama è il nome dato da Svoboda ad una installazione audiovisiva realizzata a Norimberga per celebrare il quinto centenario della nascita di Albert Dürer. Si tratta di una superficie di proiezione a forma di cinescopio diviso verticalmente in sette campi, ognuno dei quali può retrocedere in profondità, a distanze varie, fino ad un massimo di 5 metri, creando così uno spazio scenico di volta in volta differente sul quale ambientare una vivace discussione con Dürer in cui si trattava della storia tedesca attraverso l’apocalisse della seconda guerra mondiale. Lo spettacolo attirò pubblico al castello di Norimberga per dieci anni.
Al 1973 risale l’allestimento in Canada del padiglione americano per una grande mostra dedicata all’ecologia, L’uomo e il suo ambiente. Il padiglione, un’enorme sfera di vetro illuminata dalla luce diurna, esistente fin dal 1967 ai tempi dell’Expo di Montreal, era riempito da migliaia di palloncini di gomma leggera che quando erano lasciati liberi di salire in aria aderivano alle pareti del globo ed oscuravano il padiglione. Quelli bianchi, puri, dal diametro di 30 centimetri, funzionavano come schermi di proiezione su cui venivano proposte visioni di natura incontaminata, mentre il pubblico era costretto a farsi strada attraverso altrettanti palloncini neri, impuri, e l’intero spazio produceva l’effetto di una struttura molecolare.
All’epoca della messinscena de Il flauto magico di Monaco risale l’incontro con i primi laser. Il Centro sperimentale della Siemens a Erlangen, in tre settimane gli preparò la macchina che rifrangeva la luce, dopo che lo stesso Svoboda si era esercitato con qualche test, per così dire in proprio, nello smontaggio di questo nuovo sistema di produzione della luce.
Tecnica, sperimentazione, genialità, ma, soprattutto, grande sensibilità artistica caratterizzano l’atteggiamento di Svoboda nei confronti dell’uso drammatico della luce, come testimoniano le parole, con le quali ricorda il memorabile allestimento della Carmen al Metropolitan di New York nel 1972: “ …per questa Carmen creai una scenografia di sole luci. Ottenni 150.000 watt in più rispetto alla normale illuminazione del palcoscenico…la luce era talmente forte che fu necessario dipingere di nero alcune pareti, altrimenti il riverbero avrebbe abbagliato il pubblico….Alla fine dell’opera, Carmen, vestita di bianco, stava appoggiata a un muro accecante, e contro di lei Don Josè era vestito di nero, con una macchia scarlatta sul costume. Carmen finì semplicemente bruciata da quella luce fortissima”, testimone e vittima innocente della bruciante passione che la conduce alla morte.
L’ultima invenzione del Maestro, infine, un complesso sistema di proiezioni luminose su una parete di specchi semitrasparenti, realizzata per la più recente produzione de la Laterna Magika, lo spettacolo La trappola, è riproposta all’ingresso della mostra, quasi ad esemplificare un’intera vita di ricerca e sperimentazione del grande scenografo e, al tempo stesso, ad introdurre lo spettatore nei segreti della sua arte.

Una conversazione con Alejandro Jodorowsky

Antonio Bertoli – Alejandro Jodorowsky
conversazione del 22 ottobre1998

Alejandro, qui in Italia ti conoscono soprattutto per i tuoi film, El Topo, La montagna sacra, Santa Sangre, e anche per il tuo meraviglioso romanzo E Teresa si arrabbiò con dio, che ha venduto moltissimo, per Psicomagia…
…Sì, ma anche per City Lights Italia e i libri che ho pubblicato con te…
…Certo, Di ciò di cui non si può parlare, La scala degli Angeli, Le ansie carnivore del niente, Opera panica, anche questi hanno già venduto molto…
…Bueno, vedrai che piacerà anche il prossimo, Il figlio del giovedì nero, il seguito di Teresa, quando lo pubblichiamo?
In primavera prossima, quando usciremo anche col mio libro sul Panico e il Dizionario Panico di Arrabal…
Bueno, bueno… Arrabalito sarà molto contento, faremo una grande festa per allora, una festa panica…
Sì, certo, pensavo a Venezia e a Roma, forse anche Firenze… Vedremo… Comunque, sei conosciuto per i tuoi film ma anche per il fumetto -le tue collaborazioni con Moebius, Beltrand e Les Humanoides Associés- nonché per la tua attività letteraria e poetica, per la psicomagia, per i tarocchi… Un sacco di cose, una miriade di attività. In quale definizione ti senti più compreso?: regista, scrittore, sceneggiatore, poeta, psicomago…
Tutte queste definizioni, per me che sono un essere vivente, mi sembrano solo parole, niente di più.
In ogni caso ti si potrebbe definire un artista, un “creativo”…
Non voglio costringermi dentro una parola. L’essere umano è molto più di una definizione, no? Non chiedermi ciò che penso di me stesso… Se fossi effettivamente ciò che gli altri dicono di me sarei un paranoico. Le opinioni su un’altra persona ce l’hanno gli altri, uno non deve avere opinioni su se stesso.
Certo, però hai attraversato -e lo stai ancora facendo- tutti i campi dell’arte, compreso il teatro ora con questa Opera Panica; si potrebbe dire che sei un artista completo…
Lo spero…
Anche nelle singole cose che fai fondi sempre diverse espressioni, diversi livelli: cinema, musica, scrittura, fumetto…
Anche nella terapia, nel Tarocco… Faccio molte più cose di quello che la gente crede. Nella poesia, nella filosofia… Faccio molte cose…
Sei forse prima di tutto un poeta?
E’… Sì, questa è una definizione che mi piace molto, ed è il motivo per cui non la uso mai… Vedi, nella poesia reagisco a qualcosa che ha detto a suo tempo Nicanor Parra: “Nei miei libri non c’è la parola arcobaleno”. Io dico invece che nella mia poesia si usa moltissimo la parola arcobaleno. E dico anche che non si danno artifici, né lapis per scrivere, né scrivanie: c’è solo la metafisica pura. Semplicemente! Dopo Neruda c’è stata l’antipoesia, io invece sono la metapoesia. L’antipoesia e lo sperimentalismo sono una trappola e bisogna liberarsene…
La metapoesia o poesofia, come l’hai definita in un tuo libro, permette di liberarsi dello sperimentalismo sterile e dell’intellettualismo?
Se permette questo? Ah, carissimo Antonio, caro amico mio, hai presente i primi due libri che abbiamo pubblicato con City Lights? Una prende spunto dall’opera di Wittgestein, che dice sostanzialmente due cose: la prima che non si può parlare di niente che sia metafisico, e l’altra che non bisogna parlare di ciò di cui non si può parlare. E come s’intitola il nostro primo libro? “Di ciò di cui non si può parlare”, appunto. La poesia è la ricerca di questo, di ciò di cui non si può parlare, è pura metafisica. Gli sperimentalisti e tutti gli altri intellettuali confondono la matematica e la logica con la poesia. Ma i professori non sono poeti… Io non so se la vita è poesia o se la poesia è vita. Che cos’è la poesia? La vita è la vita, non ha definizioni… La poesia è vita, sì, ma la vita non è poesia, credo di no… E noi, cosa siamo noi… E’ il mistero bellissimo della vita questo, una meraviglia…
Certo però si può dire che la vita stessa è piena di simbolismi, come la poesia, di simbolismi metafisici anche…
Bueno, questi simbolismi sono “cose misteriose” che poi noi interpretiamo come simboli. In fondo però la vita non ha simboli, perché il simbolo non è la cosa, la realtà. Come dicono i giapponesi “il dito che mostra la luna non è la luna”… Il simbolo non è la cosa, mai; e in ogni caso la vita non può essere piena di simboli, perché se fosse così non ci sarebbe vita: la vita, cioè, è fatta di misteri e noi interpretiamo questi misteri come simboli anche se non sono tali. Sono fatti, semplici fatti…
Quelli che comunemente si chiamano miracoli, soprattutto nella tradizione cattolica…
Bueno… la religione cattolica interpreta come miracolo ciò che non corrisponde normalmente al concetto di realtà comune. In verità, la “realtà” è davvero un miracolo complessivo. Tutto è miracolo… posto che stiamo parlando di miracoli…
Come un altro piano di realtà, allora, un altro modo di concepirla e di viverla…
Non so, suppongo di sì… Chiaro, è vero, esistono altri piani di realtà…
Che ne pensi dei casi di possessione o sdoppiamento della personalità? Hanno a che fare con questo, con questi diversi livelli di realtà in cui è possibile vivere?
Conosco uno schizofrenico che è totalmente sdoppiato, anzi conosco solo schizofrenici che vivono il fenomeno dello sdoppiamento. Nessuno mi ha mai provato che ci si può staccare dal corpo. Lo si può fare solo in sogno. In sogno, sì, e nell’immaginazione…
Però sia nel sogno che nell’immaginazione si continua a stare dentro il corpo, senza separarsene…
E’ che il corpo, stare dentro il corpo, equivale a dire che… come dire che la mollica sta dentro il pane… La mollica “è” il pane. Uno non sta dentro il corpo, uno “è” il corpo…
Allora è una cazzata il famoso detto che uno è fatto di anima e corpo…
Sì, sì, sì!! Uno “è” il corpo, con tutto ciò che questo significa. Quello che sta parlando ora è un corpo, un corpo cosciente… Il che equivale a dire che il corpo è qualcosa di misterioso e indefinibile. Siamo diversi da quello che crediamo di essere… Non sappiamo ciò che siamo però sappiamo quello che sentiamo, il che è diverso… Non so chi sono però so come mi sento. E’ questo il punto!
E’ questo il punto… Ma uno può passare la vita a cercare chi è, c’è molta gente che si perde in questa improbabile avventura spirituale…
Vedi, io penso che i greci siano stati dei cretini, che costituiscano un mito occidentale assolutamente idiota. Platone è un cretino: il suo “conosci te stesso” è la più grossa idiozia che abbia mai sentito… L’essere non può conoscere se stesso dato che, se si conoscesse, si sdoppierebbe, di dualizzerebbe. “Sii te stesso” è una cosa, “conosci te stesso” un’altra… Perché se tu conosci te stesso, allora chi conosce chi? C’è una dualità, s’instaura la separazione… E una dualità non è mai la cosa. “Sii te stesso” invece sì. “Conosci te stesso” è un’idiozia e colui che l’ha scritto un cretino… Non sapevano niente, i greci, erano completamente perduti… Poveri greci primitivi…
E’ però dai greci che deriva la cultura occidentale, quella in cui tutti siamo ancora immersi…
Bueno, sì… E’ vero… L’unico greco interessante era Socrate, l’unico! Il fatto è che aveva rapporti con un demonio, consultava un diavolo e questo gli faceva bene, per questo Socrate è buono e divertente…
Dato che stiamo parlando di filosofia, c’è qualche filosofo che ti sembra particolarmente interessante?
Bueno, ho passato tre anni sforzandomi di capire Wittgestein. E’ interessante, certo, ma molto limitato. Credo che ora il filosofo più interessante sia Maister Eckhart, lo conosci? Un tedesco che fa dei sermoni… E Heidegger, anche. Interessante…, però quello che mi ha preso di più è stato Levinas, un filosofo francese ebreo. Mi ha interessato molto, anche se da un certo punto di vista mi interessano tutti i filosofi.
E hai studiato molto anche le filosofie orientali, vero?
Sì, abbastanza. Le ho studiate, praticate… Dalle Upanishad allo Zen; il Buddismo Zen in particolare, moltissimo. E’ ciò che più ho praticato, meditazione e tutto il resto. Ho iniziato con l’induismo, soprattutto con le Supanishad, poi sono passato alla filosofia cinese con Lao-Tsé, Lie-Tsé. Fu molto interessante e mi influenzò non poco, tranne Confucio. Io non sono per niente confuciano! Fu Lao-Tsé quello che mi influenzò di più, con Tchouang-Tsé e Lie-Tsé… Poi mi avvicinai, bueno, sì, mi avvicinai al folklore tibetano… Lo chiamo folklore perché mi sembra che non sia una filosofia abbastanza complessa. Ho sempre trovato che il Dalai Lama dice pure idiozie, niente più che luoghi comuni… Dovrebbe vergognarsi di dire così tanti luoghi comuni, e anche il Papa! I due più granti tonti della mistica sono il Papa e il Dalai Lama!
La ricerca spirituale obbedisce a qualcosa che è parallelo all’arte o c’è una con-fusione con questa, un’unità complessa cioè?
E’ l’arte che ti innalza alla ricerca spirituale, capisci? L’arte ti porta ad esplorare sentieri dove non ci sono limiti, dove non esistono parole… Tu, come artista, cerchi un significato a quello che fai, no? Cerchi, cerchi, cerchi dappertutto, in ogni dove… Io ho cercato nel Sufismo, nello Hasidismo… e sono cose divertenti, racconti… Sono credenze molto particolari perché sono molto primitive, è un mondo ormai passato che può però servire molto perché usa racconti, barzellette, aneddoti, leggende… E’ come… come un’arte, ecco… Budda, in un certo senso, è comico. Quello che stava lì immobile, quello che morì d’indigestione, che stava sotto un albero, che diceva che non si dà “io”, che per parlare con un discepolo di tagliava un braccio, quello che diceva che bisogna affrancarsi da questo mondo per non reincarnarsi… Tutte queste cose sono superstizioni comiche, non ti pare? Credere che ci fu un Cristo che si reincarnò e che ci fu un Dio che si fece uomo… è comico, non ti pare? Tuttavia ci crediamo lo stesso, anche se questi riti sono talmente assurdi da non aver niente a che fare con l’intelligenza… Sono i miti fondatori… D’altronde, stiamo ancora vivendo sui miti fondatori perché la società si basa solo su di essi. La società assassina sempre chi nega il mito fondatore… Come nel caso di Salman Rushdy: chiunque attacchi il mito fondatore è rifiutato dalla società, solo perchè la società si basa sul mito. Quello che bisogna fare è “ri-vedere” il mito, reintepretarlo in un’altra forma… E’ l’unica possibilità che ci è data. Si può parlare del mito dandogli un’altra interpretazione, non si può negarlo…
Secondo te, dunque, non è possibile creare nuovi miti?
E’ molto difficile, perché i miti effettivamente reali sono quelli fondatori, quelli che fondano la società… Prima si pensa, si sogna; poi si racconta e dopo si scrive: il mito nasce così. La gente lo accetta e organizza una società intorno a questa bugia, a questa leggenda. I miti fondatori sono la grande bugia… D’altronde, uno vive accettandola. Per esempio il mito fondatore della scienza è il big bang, il quale non è altro che un mito, niente di più… la bugia su cui si basa la scienza. Ma uno non deve crederci effettivamente perché non è altro che un mito, un racconto di fate. In sostanza tutta la nostra civiltà, la nostra cultura, la nostra storia, sono basate su racconti di fate, su delle favole… Ti rendi conto che attualmente si stanno ammazzando, arabi ed ebrei, solo perché si scava un tunnel in una montagna in cui si racconta esistesse una volta un tempio che nessuno sa se davvero è mai esistito?
Un paradosso, una danza della realtà…
Proprio… Il tempio che difendono è un tempio da cui partì Budda col suo asino per altre dimensioni… Un uomo che parte per altre dimensioni! Sono follie, racconti di fate! In Israele si stanno ammazzando per delle favole, per dei racconti di fate! Nell’anno 2000, pensa: una follia…
Già, una follia: e la chiesa cattolica non è molto diversa…
Guarda, abbiamo adottato tutti un concetto di giustizia derivato dalla Bibbia, dicendo che questo libro è stato scritto da Dio: allora vuol dire che crediamo che Dio scriva dei libri! Gli ebrei credono che Dio abbia scritto la Torà, i libri… Come è possibile?
E’ possibile, è possibile, Alejandro: si fanno guerre solo per questo…
Guerre terribili! E’ una catastrofe: ci stiamo uccidendo per delle favole…
E cosa si potrebbe fare per invertire o impedire questo processo?
Niente più che cercare un livello di coscienza. Poco a poco, con calma. Tuttavia continuiamo a credere che l’esercito sia necessario, quando in realtà tutti gli eserciti dovrebbero svanire. Bisognerebbe far studiare musica a tutti i militari… pianoforte, violino, fare in modo che nascessero delle grandi orchestre… Possiamo fare eserciti di professionisti, se proprio li reputiamo necessari, che siano in grado di maneggiare macchine e guerra elettronica, e già credo che esistano… I soldati non sono necessari, non ci dovrebbe più essere servizio militare… E’ straordinario come i militari seguitino a credere di essere indispensabili e che solo con loro si possano dirigere e mandare avanti le cose: sono già “démodé”, inutili, completamente…
Però il mondo è militarista, e gli USA costituiscono un modello di sviluppo…
Guarda il Cile, per esempio, il Cile si sta convertendo piano piano al protestantesimo: il perché è evidente, dato che gli Stati Uniti sono il paese più forte e la loro religione è il protestantesimo e non il cattolicesimo. Il protestantesimo diverrà infatti sempre più forte… Non sono un profeta, ti dico semplicemente quello che vedo… Già nel ’60 dicevo che il servizio postale era sul punto di cadere e guarda ora cosa succede col fax, con l’e-mail… Dicevo che la posta sarebbe diventata un’altra cosa: si sarebbe usata solo per i pacchi, per gli oggetti, come effettivamente è accaduto, anche se doveva continuare ad esistere la possibilità di spedire una lettera personale a chiunque… Bisogna rendersi conto che siamo immersi in un cambiamento e che questo cambiamento si verifica poco a poco…
E credi che questo cambiamento sia positivo?
Dipende, dipende… Le cose arrivano ad una crisi e poi cambiano. Ci sono momenti di nascita, di morte, cose che permangono… Però, in fondo, l’unica verità è che l’uomo cambia davvero solo se è in pericolo di morte. Sembra purtroppo che sia necessario questo tipo di pericolo per fare in modo che tutti si mettano d’accordo e riescano ad andare oltre l’egoismo… Io ho comunque fiducia, credo che ci sarà un cambiamento positivo, anche se è necessario molto tempo… E ci serve tempo perché il grande problema è l’egoismo: quando l’essere umano si renderà conto che quello che accade a tutti gli altri accade a lui stesso, allora sì, vedremo… C’è un Budda che disse: “Non voglio nulla per me che non sia per gli altri”. Però succederà poco a poco…
In mezzo a tutti questi racconti di fate, cosa c’è di reale e di vero nel mondo?
Reale e vero? Molto poco! Guarda, stiamo sprofondando sempre di più nell’irrealtà. Se vedi qualche film prodotto negli Stati Uniti, come “Indipendence day” o “Twister”, per esempio, ti accorgi che in ambedue i casi la soluzione è bere o Coca o Pepsi-Cola… Nel primo mettono una coca-cola nella piattaforma volante e in tal modo vincono gli extraterrestri, nel secondo riescono a far volare delle bolle d’aria contro i cicloni solo grazie alla Coca-cola… Per gli americani la surrealtà, la super-realtà, sono i suoi prodotti di consumo, il che è completamente irreale, non trovi?
Certo che sì…
Bueno… La coca-cola è la soluzione per tutto… C’è molta poca realtà oggi, davvero poca, ma in ogni caso riusciremo e riusciamo ad attingere a certe realtà, no? Nell’arte, nel teatro, nella terapia e soprattutto nella poesia si impara ad incontrare che cosa? La ricerca, sempre, la ricerca e non certo soluzioni… Ma anche nella terapia si incontrano verità, e la terapia è fatta per curare le malattie, no? Anche nell’ecologia s’incontrano delle verità, certo, ma la verità vera è soprattutto interiore, e il cammino è quello di andare avanti per incontrare te stesso…
Ti è servito il Tarocco in questo cammino di autoconoscenza?
Sì, ma non solo per questo… Il Tarocco è un linguaggio, è questo che bisogna capire… Con il linguaggio uno fa poesia, teatro, fa ciò che vuole. Il Tarocco è un linguaggio che si apprende… C’è una grammatica, una struttura, perché si tratta di un linguaggio ottico, visivo. Solo quando conosci questo linguaggio puoi usare il Tarocco e solo allora lui ti aiuta, perché nella misura in cui lo usi esso ti usa, ti forma… Tu fai il linguaggio e il linguaggio a sua volta ti fa: il Tarocco è questo, un linguaggio che ti permette di conoscerti…
Non si tratta dunque di un oracolo, sono completamente d’accordo…
No, certamente no. Si crede che il Tarocco sia un oracolo ed è stato usato sostanzialmente per questo, ma non lo è affatto. Il Tarocco è un linguaggio, è una specie di test psicologico. Come una chiave di conoscenza… E’ molte cose e in fondo solo una: un’arte di pensare che io chiamo “tarocchica”. Ti struttura il pensiero in una forma diversa… Ti apre a nuovi modi di pensare…
Il Tarocco ti è servito molto per il tuo lavoro…
Sì, moltissimo, e serve ora a molta gente da che esiste il “Cabaret Mystique”, una conferenza e una seduta di tarocchi che dò tutti i mercoledì, alternativamente, una specie di terapia collettiva. Parlo di vari temi e li propongo alla gente e li attualizzo pure, mentre alle sedute di tarocchi possono assistere tutti quelli che vengono… E’ tutto gratuito, naturalmente, e sono 20 anni che lo faccio… Viene molta gente e non c’è alcuna pubblicità se non il passa parola, è buono questo, non ti pare?
Certo che sì, certo… Ma, dimmi, questo fa parte della ricerca della verità di cui si parlava prima?
Io dico che uno non può cambiare il mondo, però deve cominciare a farlo. Dico che il mondo non è mio però posso muovermi nel mondo e quindi da questo punto di vista il mondo è mio. E se parto da questa base può darsi che riesca ad aiutarlo… Quindi, il mondo è mio!
Chiarissimo…
Ma attenzione, però… La vista del fieno ingrassa il cavallo. Io faccio tutto quello che faccio senza aiuti, senza università dietro, senza istituzioni, senza sette. E’ un individuo che fa tutto questo e dopo facciamo una colletta per pagare il posto dove siamo. Lavoro gratis una volta a settimana, gli altri no perché altrimenti sarei un idiota. In ogni caso il Tarocco è un linguaggio che ti permette di diagnosticare delle cose, non è una terapia, è un linguaggio che diagnostica… Dice che questo è quello che hai e che devi curarlo… Ho inventato altri metodi per curare: la psicogenealogia, la psicomagia, il massaggio iniziatico…
Parliamo un attimo di Teresa, a proposito. Nel romanzo sembra che il Tarocco sia una tua tradizione di famiglia. E’ possibile che sia così ma io non credo, penso invece che sia un’invenzione che fa parte dell’architettura complessiva del libro, dell’idea di fondo: quella di riportare la realtà al livello del mito…
Sì, l’idea del Tarocco nella storia della mia famiglia l’ho inventata per me… L’ho sentita così e l’ho riportata per come l’ho sentita… Quanto al resto, è vero: ogni personaggio l’ho esaltato e innalzato al livello del mito anche se tutto parte sempre da fatti reali, storia, luoghi, tutto è reale… Poi c’è l’invenzione, l’ispirazione… Io ricevo come in una specie di trance quello che poi scrivo…
E’ così anche per il tuo lavoro nel fumetto?
Sì. Pensa al Metabarone, per esempio. Quando stavo scrivendo l’Incal mi apparve in sogno, come un’immagine, e poi l’ho usata. Faccio dei sogni creativi e in questi sogni il personaggio che sono è identico al me stesso della realtà, non c’è alcuna differenza. Abbiamo gli stessi pensieri, le stesse attitudini, è tutto uguale… Non ho più incubi da molto tempo, è come se il sogno avesse trovato una soluzione… Lo posso usare, come tu puoi usare qualsiasi cosa della realtà che ti possa servire… Ciò significa che tutto è alimento, che uno si alimenta di ciò che vede, di quello che sente, di ciò che succede… In fondo tutto costituisce materiale per creare, energia creatrice…
E’ per questo, credo, che tutto confluisce in tutto, che non ci sono limiti…
Sì, sì! Non ci sono limiti e non bisogna averne! Bisogna fare quello che si vuole senza alcuna mediazione…
Così un’immagine può essere pura poesia e una poesia essere musica…
Tutto quello che vuoi… Puoi fare musica, cinema, poesia e… l’arte di curare, di massaggiare… Tutto è arte, per l’artista tutto è arte come per il politico tutto è politica. Accendere un fiammifero per l’artista è un fatto artistico, e una poesia per il politico è un discorso. Le cose non sono intelligenti di per se stesse. Una cosa idiota detta da un saggio è profonda, e una cosa intelligente detta da un idiota è idiota.
Che mi dici del Panico?
Tu ne sai più di me del Panico, credo tu sia il massimo esperto su questo argomento… Ti posso dire che è un movimento che abbiamo creato con Arrabal e Topor per burlarsi della cultura, come sai, il che equivale a dire che non è mai esistito, che non ha mai avuto un manifesto, che non abbiamo mai deciso di chiamare “panico” tutto quello che facevamo e che facciamo, perché avevamo in comune una concezione del mondo in qualche modo in contrapposizione al surrealismo. E questo perché quando abbiamo conosciuto il surrealismo questo già stava morendo. Per noi era un’arte romantica a cui non piaceva il rock, la fantascienza, i romanzi polizieschi, la musica, la pittura contemporanea. Era come una specie di formalismo romantico, no? Una forma surrealista… Politicamente erano trotskisti… Allora ci stancammo e creammo quella che si chiamava una “reazione panica”, però in fondo era solo per scherzare… Quando mi dicono “tu eri panico” rispondo “tu eri che?”, come se mi dicessero “eri Torquato”: non significa nulla…
Con Arrabal e Topor, almeno finchè questi è vissuto, hai continuato a frequentarti?
Bueno, ci vediamo sempre con Arrabal e anche con Topor ci siamo continuati a vedere finchè non è morto. Topor parlò del Panico, Arrabal parlò del Panico, io parlo del Panico. Quando parliamo del Panico ognuno parla di se stesso… Questo è fondamentale: non c’è uno stile panico, un modello panico. Nessuno di noi mai si è infognato né s’infognerà mai in un modello! Non mi interessa…
E di Dalì che mi dici, era un surrealista, no?
Il più surrealista di tutti. Credo che sia stato uno degli unici surrealisti…
Infatti, Dalì diceva “il surrealismo sono io”….
Certo, ed era vero… Proprio…
Senti, mentre andavamo in Cile parlavamo di questioni artistiche e del ruolo dell’arte nella società, e tu mi dicesti che l’erotismo, il misticismo e la deriva violenta erano tre ingredienti basilari della cultura. Come la vedi ora?
Mi piace… Mi piace… All’epoca in cui fondammo il Panico ci piaceva la pornografia, vedi?, però la pornografia non era permessa anche se era libertà pura, allora; era punita dalla legge. Cercavamo quindi le nostre foto pornografiche dappertutto, in tutti i paesi, e difendevamo la pornografia come una manifestazione artistica… I tre elementi che hai detto sono parte integrante della cultura. Basta solo accendere la televisione per accorgersene… In Argentina quando sparì Maradona si paralizzò il paese, il Presidente rilasciò dichiarazioni alla Tv. Questa è deriva violenta… Viviamo in un’epoca calcistica e il calcio è parte della cultura. Non c’è un solo imbecille che non parli di calcio!
In tutto il mondo…
In tutto il mondo. Quando vai in Cile ti domandano prima di tutto di che squadra sei, prima ancora di chiederti la carta d’identità…
Un modo di definire e identificare la persona, chiaro…
Sì, anche se questa deriva piuttosto violenta non ti arriva in fondo, nell’anima. In fondo, la deriva nella cultura, pur riconoscendola e dovendoci fare i conti, non dovrebbe esistere. E’ una malattia che ci deriva dai greci, ancora, e non solo questa: i greci inserirono addirittura la bellezza all’interno della cultura… La grande malattia del mondo d’oggi ci deriva solo dai greci, quegli inconsapevoli primitivi…
Il fatto è che tutta la filosofia occidentale è improntata su di loro…
Sì, è per questo che sono così stanco di filosofia… E la bellezza, vedi, quello che si chiama bellezza, l’arte, è sempre un colpo, a volte anche violento, perché ciò che non è arte non ti colpisce: è il comune, il volgare, quello che vedi sempre… L’arte è ciò che non vedi tutti i giorni, è il nuovo, il distinto, il sorprendente, il magico, è il sublime! Non viviamo in una realtà sublime, vero? Quando entri in una scuola di bambini ti rendi conto immediatamente che la società non è sublime, con l’atroce educazione che ricevono…
Che relazione c’è tra l’effimero teatrale e questa definizione della bellezza, tra l’atto effimero e questa concezione dell’arte?
L’effimero è una nozione. Tutti i poeti, tutti, sentono l’effimero e parlano della morte. Tutta la poesia è marcata da questo tema essenziale… Lo chiamano “morte” e io invece lo chiamo “impermanenza”, dato che l’universo è un’impermanenza permanente. E’ proprio nel momento in cui si capta l’impermanenza che si attinge alla bellezza. Dio non può essere bello perché la divinità non ha qualità. La qualità della bellezza è la non permanenza. E’ il lato nostalgico e doloroso della bellezza, sempre presente, perché è impermanente… Qualsiasi cosa tu guardi e che ami è impermanente… La nozione di impermanenza produce la poesia.
E’ per questo, allora, che si dice che la poesia cerca la bellezza…
Per questo, sì… Quando parli è esattamente il momento in cui non esprimi niente… La parola è sempre un fallimento. Quello che cerca il poeta è di esprimere in parole quello che la parola non può dire. Il fallimento è un altro degli elementi dell’arte. Il fallimento continuo e la continua impermanenza. L’arte usa parole, cerca l’impossibile però non si obbliga ad essere impossibile, capisci? L’arte cerca di esprimere il silenzio con la parola, ma non si obbliga a rifugiarsi nel silenzio. L’abbondanza di parole cerca sempre e solo il silenzio…
Un circuito ricorsivo, un paradosso creativo, forse la surrealtà dei poli opposti che si congiungono pur restando separati… L’androgino universale…
Sì, ossia la materia cosciente, alla fin fine… L’androgino universale non si incontra, uno lo è e basta… Non si può incontrare quello che si è, uno incontra quello che non è e cerca solo questo. Non abbiamo la necessità di incontrare quello che siamo, dobbiamo solo esserlo. Io non desidero incontrarmi ma essere e, posto che io sono, non mi preoccupo dunque troppo…
Nasce così l’arte, dall’essere costantemente quello che si è?
Ti devo confessare una cosa: non c’è mai arte, ci sono solo artisti… Un artista converte in arte tutto quello che tocca, è una specie di Re Mida. Però l’arte non c’è, ci sono solo artisti… Le opere sono solo opere di un artista, non opere… L’escremento di un re è l’escremento di un re. L’escremento di un artista è l’escremento di un artista. Le opere sono come escrementi, dipende da chi le caga… E’ l’ano che le caga che li definisce. L’atto è definito da chi lo compie. Una frase è stupida se la dice uno stupido. Se la stessa frase la dice un saggio, è saggia…
Certo, e lo stesso si può dire per il cosiddetto “contenuto” dell’opera…
Non c’è contenuto, non si dà mai un contenuto a priori: è l’autorità di chi lo afferma, di colui che crea che lo designa. Anche l’originalità non è che una parola vuota, io la converto in autenticità. Ogni cosa autentica è originale perché siamo tutti distinti, diversi… Solo quando uno è autentico è originale! Uno non è originale ma autentico, ossia è quello che è…
Onestamente, direi anche, onestamente…
Onestamente, certo. Gli imitatori e gli epigoni non sono loro stessi, non sono autentici. In arte ci sono molti cosiddetti artisti che copiano altri stili, altri artisti. Sono copiatori: per arrivare a loro stessi devono copiare. C’è anche un altro metodo che è quello di opporsi a qualcun altro: un poeta fa poesia, l’altro fa antipoesia… E’ un metodo che non funziona perché ogni contraddizione dipende dall’oggetto della contraddizione: se fai antipoesia sparisce poi anche la poesia…
E credi che la disperazione abbia qualcosa a che vedere con l’arte? Se ne è sempre parlato molto, si dice che sia alla base dell’arte…
Sì, all’inizio almeno funziona quasi sempre così… Io ho iniziato a leggere molto presto, a quattro o cinque anni, e mi sono immerso nella letteratura di colpo… Non avevo amici perché mio padre era commerciante nel barrio Matucana, quando questo era un quartiere operaio… Si ammazzavano anche di giorno, a coltellate… Io vivevo lì, passava il treno… Per disperazione ho iniziato a scrivere poesia, e così ho cominciato… A volte uno non cerca le cose, sono le cose a cercarlo… Uno è come un canale dove le cose iniziano a scorrere… Non so se ero dotato o meno, so solo che non potevo fare altro che quello che ho fatto…
E nella tua famiglia come vedevano tutto ciò?
Quando lo dissi a mio padre, quando gli dissi che lasciavo l’università per fare marionette, si mise a piangere… Pianse. Quando pianse… tirava sempre fuori un piede dalla scarpa e, siccome aveva i piedi sudici, c’era una mosca che volava attorno al suo piede come un satellite, così mentre piangeva io guardavo la mosca che gli girava intorno al piede e non mi preoccupai…
Da che te ne andasti dal Cile non hai più visto tuo padre, vero?
Sì, mai più. Ho fatto un taglio netto, allora…
Un taglio necessario?
Sì, assolutamente. Era una vita che non mi corrispondeva e così decisi di tagliare di netto… Mia madre, mio padre, mia sorella, i miei zii, i nonni… Ho tagliato, semplicemente. Tagliato… Solo mio padre lo vidi 40 anni più tardi. E’ ancora vivo…
E cosa hai sentito?
Niente.
Niente?
Niente. Vedi, quando ero bambino, al nord del Cile, per me era come vivere in un paradiso. Anche a Santiago, perché fu la mia adolescenza. Il Cile resta il mio Macondo, però non quello di Garcia Marquez. Non un paese esteriore ma un paese interno, prima di Allende e prima di Pinochet, dove non c’è né Allende né Pinochet… Ora che ci ritorno ogni tanto lo trovo un po’ più triste di come me lo ricordo, perché i regimi hanno via via ammazzato l’arte, la cultura, la festa… Gli anni 40, i 50, erano per il Cile una festa continua, abbastanza crudele perché in Europa si stavano invece ammazzando tutti. Mentre il mondo si stava strozzando in Cile si faceva festa… Molto poetico e molto ubriaco, il Cile di quei tempi… Avevamo un gruppo surrealista che si chiamava “La Mandragora”, allora, c’erano poeti, pittori, però era più letterario che altro quel gruppo, davamo un sacco di feste, facevamo molti atti poetici, poesia e teatro…
Senti, noi abbiamo pubblicato due tue libri di poesia che ho tradotto io. L’ultimo in particolare, La scala degli Angeli, porta come sottotitolo Un’arte di pensare…
E’ la prima volta che pubblico poesia, e lo devo a te in particolare… Se non t’incontravo non l’avrei fatto… Un’arte di pensare è proprio questo, un’arte di pensare… Poesofia… L’artista può essere filosofo, la filosofia è sempre entrata nella poesia e così credo che si possa entrare nella filosofia con l’arte. Mi faceva molta paura, dapprima, però poi credo di esserci riuscito… Mi sono fermato per non so quanti mesi e tu sai bene quanto ho da fare… Però era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare, l’unica cosa cui mi sono dedicato finchè non l’ho terminata… Generalmente non sappiamo pensare, ci occorre sempre uno sforzo, e allora credo che bisogna insegnare a farlo però senza ricorrere ad esercizi intellettuali… Da qui è nata la metapoesia, o meglio la poesofia: da una parte poesia che si fa filosofia, dall’altra filosofia che si fa poesia… La carta del Tarocco, La ruota fortuna, è il cerchio dell’eterno ritorno che meglio rappresenta questo circuito ricorsivo creativo… In questa poesia, nei libri che abbiamo fatto, credo ci sia la base di tutta la mia arte…
Ora stai lavorando a molte altre cose, oltre che alla poesia…
Sto preparando un film, un fumetto, ho già scritto la continuazione di Teresa che pubblicherò in Italia con te e sto iniziando il seguito ulteriore, ho appena finito di scrivere un altro romanzo, Albina, e devo continuare con tutte le sceneggiature dei fumetti per cui ho già firmato dei contratti, La casta dei Metabaroni, il Tecnopadre, La guerra di Megalex… Ho talmente tanto da fare che non posso permettermi di morire per almeno altri dieci anni… Obbligatorio, per contratto…
Tu vivi in Francia, a Parigi. Perché ci andasti allora, fu Marcel Marceau ad attirarti?
Bah! Allora mi attirava perché era un mimo molto famoso e per me che allora avevo già rappresentato dei mimodrammi ed ero piuttosto conosciuto, era fondamentale misurarmi, apprendere, imparare, crescere… Con Marceau ho imparato che il mimo, anche se mi riusciva bene, non era il mio destino: dopo aver appreso al massimo quest’arte mi accorsi che mi limitava, che avevo altri talenti oltre a quello di saper muovere il corpo in una scena… Così lo lasciai, anche se tutto andava benissimo, e iniziai col teatro, o meglio ritornai al teatro… Con Marceau ci si vede ancora oggi, scrivo delle cose per lui… Quando me ne andai dalla compagnia era costernato, non ci poteva credere: avevamo successo, soldi, ci richiedevano tutti… Ma non era il mio destino, la mia meta…
Il teatro… Iniziasti prima in Cile -marionette, clown- poi un vero e proprio gruppo insieme a Lihn, se non sbaglio… Dopo Marceau iniziò l’avventura messicana…
Sì, ho messo in scena circa un centinaio di opere, di fatto creando il teatro d’avanguardia messicano… Ora mi riconoscono anche lì, però fu una gran fatica… Pericolosa, anche, con minacce di morte, arresti, chiusure del teatro… Un’esperienza molto forte…
E’ stato in Messico che hai incontrato Pachita…
Sì, fu laggiù, e ho incontrato anche Maria Sabina, che mi dette i funghi allucinogeni da cui è nata La Montagna Sacra… Non che quello che ho fatto sia legato ad esperienze allucinogene, è solo che in certi momenti senti la mente chiusa e l’allucinogeno ti aiuta ad aprire le frontiere… Io il film l’avevo già tutto in testa, chiaramente, l’avevo già scritto…
Eri un clown un tempo. Ti senti ancora addosso questa capacità?
Chiaro che sì… Non ho perso niente delle mie cose, delle mie esperienze… Nelle conferenze che faccio oggi la gente si diverte molto, ride… Analizzo anche le barzellette come qualcosa di molto profondo… Ho scritto un libro che si chiama “La saggezza delle barzellette”: dico che molte di queste trasmettono messaggi profondi…
Bueno, riprendiamo più tardi…
Antonio, ricordati che la testimonianza di un essere umano è molto limitata perché l’essere è molto complesso… Quello che ci siamo detti oggi è derivato dallo stato d’animo in cui ci siamo incontrati… Domani o dopo ti posso dire qualche altra cosa, parlare d’altro, possiamo incontrarci su altri piani, anche se questo mi piace proprio, devo dire…